L'amico e sodale Miali Logudoresu ci ha chiesto di aggiungere alle nostre una sua estroflessione apparsa recentemente sul quotidiano online l'AltraVoce: dato che lo spazio virtuale, per definizione, è illimitato, assecondiamo la sua richiesta, anche se pletorica.
Ho letto con molta attenzione un ’articolo dettagliato e preciso di Matteo Bordiga sul quotidiano on line l'Altra Voce, a proposito dell’utilizzo terapeutico degli asini. La riscoperta (era ora!) della valenza positiva di questo simpatico animale, è anche una riconferma (mi pare) di antichi simbolismi presenti in molte tradizioni che all’asino attribuivano non soltanto accezioni negative, se non addirittura asuricheRane di Aristofane dice al suo padrone che gli carica il fardello sulle spalle: “sono io l’asino che porta i misteri”. Nella commedia si tratta forse di un’immagine caricaturale, e tuttavia l’asino portatore di misteri non è per niente un’immagine isolata e gli studiosi del simbolismo la interpretano come il simbolo del re e del potere temporale. Per cui – se ci si riferisse a questa illustre tradizione – chiamare “asino” un assessore o un presidente, un ministro o un premier, non dovrebbe suonare affatto offensivo. o sataniche, ma lo consideravano un animale sacro. Esso aveva infatti un ruolo importante nei culti apollinei di Delfi e aveva un ruolo insostituibile nel culto di Dioniso: portava il cofano che serviva da culla al dio. Lo schiavo delle
Fra le molte valenze del simbolo ce n’è un’altra che considera l’onagro, l’asino selvatico, come il rappresentante degli asceti del deserto e dei solitari. Pare che questo significato sia in relazione con la particolare durezza della mascella dell’onagro. E infatti fu proprio con una mandibola d’asino (probabilmente selvatico) che Sansone fece fuori un migliaio di nemici, prima che lo accecassero e lo incatenassero alle colonne del tempio. Rievocando questo aspetto del simbolo si potrebbe dare onorevolmente dell’asino, o dell’onagro, al cosiddetto “cane sciolto senza collare” (col quale volentieri ci identifichiamo) o al “rabdomante triste” di una sinistra che non c’è o che non c’è più.
Dice dunque bene Bordiga, in conclusione del suo articolo:
«Insomma, sulle potenzialità dell'asino e dei suoi prodotti naturali si stanno scoprendo un mucchio di cose interessanti e inaspettate. Alla faccia di quelli, e non erano pochi, che lo ritenevano un animale inutile, da confinare in un giardino zoologico».
Ecco, signor direttore, ho letto questo articolo subito dopo aver dato una scorsa ai numerosi e dottissimi interventi di linguisti esimi, antropologi da nobel, professionisti delle giurie dei premi con i quali esaltare i somari, titolati accademici e scrittori già emersi o emergenti; e con intollerabile insolenza ho sentito salirmi dalle viscere la considerazione: il mondo sarà un giardino di gioia e forse anche questa piccola isola potrà tornare ad essere “felice” (come la definivano, tra gli altri, antichi cronisti cultori di Apollo e di Dioniso) quando quel che saggiamente ricorda Bordiga a proposito degli asini potrà applicarsi anche agli uomini. Che come ci ricorda un grande saggio indiano altro non sono che “animali forniti di mente che non sempre usano”
Lei mi dirà, signor direttore, che non basta trincerarsi dietro i simbolismi e il gusto pericoloso dell’insulto (letterario, sia chiaro): bisognerebbe entrare nel merito e nel vivo del dibattito.
Ma sarebbe come unire agli altri uno dei tanti “orrios” che notoriamente “no alcian a chelu” e riecheggiano, stagnando, fra le colline delle marmille e delle gallure. Dato che lei mi insegna, direttore, che le lingue, tutte le lingue, anche quelle minoritarie o poco diffuse, non si inventano a tavolino, né in uffici né in studi televisivi o in sinagoghe. Le lingue si parlano e si scrivono. E parlandole e scrivendole si trasformano. E nonostante la strana opinione di certi linguisti offuscati, parlandole e scrivendole si evolvono.
Se si richiamasse alla memoria questo elementare principio credo che tutto lo spreco di risorse, di soldi e di energie, attorno all’annosa questione della lingua sarda data in mezzadrìa, finirebbe per apparire come quella parata di “burichi e burichetti” - magistralmente descritta dal Bresciani - che assieme ai “cavallucci piccoletti, gai, rubizzi e pepati” incantavano il re di Piemonte, strappando l’applauso del popolo quando “aggiogati al cocchio del Principe, lo scorrazzavano per le vie” della capitale d’oltremare, “agitando la negra e folta criniera, ringalluzziti, quasi sentissero il nobile pegno loro affidato da sì gran Re”.
vedi anche: la calata degli asini
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