lunedì 27 agosto 2007

Ben tornato Giordano




Giordano Bruno è tornato.
Ha scelto di rinascere da un poeta di prim'ordine e da un'artista raffinata.
La madre si chiama Fabiola. Il padre si chiama Alberto.
Appena ha rivisto la luce materica ha salutato il mondo con una nota bassa, da coro a tenores.
Benvenuto!

sabato 11 agosto 2007

riletture ferragostane

image by Bruno Pittau, Brokenart

Massa e potere di Elias Canetti.
L'età dell'oro di Gore Vidal


Il libro considerato da molti il suo capolavoro, "Massa e potere" , Elias Canetti (premio Nobel 1981 per la letteratura) lo ha pubblicato ad Amburgo, dopo lunghissima gestazione, nel 1960. Dopo circa mezzo secolo è una lettura ancora attuale: soprattutto per chi, aspirando a praticare o esercitando di fatto un qualche potere, ne voglia penetrare le pieghe più recondite e il segreto più profondo.
Due delle caratteristiche essenziali del potere sono, secondo Canetti, l'imitazione e la metamorfosi. Della prima, l'imitazione, conta soprattutto l'atteggiamento interno di chi imita. Ad esempio, le scimmie e i pappagalli sono animali considerati imitatori per eccellenza. Ma imitando, essi non mutano affatto se stessi, non sanno cosa sia. ciò che imitano, dato che non lo hanno mai sperimentato interiormente. Quindi, nell'imitazione possono saltare da un oggetto all'altro, senza che la sequenza abbia per loro la minima importanza.
L'imitazione, secondo Canetti, è solo un primissimo passo verso la metamorfosi. Una forma intermedia, che si arresta volutamente a mezza via tra l'imitazione e la metamorfosi, è la simulazione . Ad esempio: il farsi avanti come amico, ma con intenzioni ostili, che è presente in tutte le forme avanzate di potere. Nella simulazione è essenziale che l'interno resti molto bene occultato verso l'esterno. All'esterno sta infatti l'elemento amichevole-inoffensivo; all'interno sta quello ostile e mortale.
E' importante afferrare bene il concetto: la componente mortale si tradisce solo nell'atto definitivo.
Con l'intento di intendere la simulazione nel suo significato più genuino, Canetti richiama un antico racconto indiano, quello del lavandaio che aveva un asino capace di portare carichi straordinari. E' uno dei racconti della meravigliosa raccolta del Panchatantra. (I cinque Libri di favole forse più antiche del mondo, a cui hanno attinto un po' tutti, da Esopo a Fedro, da Babrius a La Fontaine, da Giovanni da Capua agli Andersen).
Per nutrire l'asino il lavandaio lo rivestiva nottetempo con una pelle di tigre e lo mandava a pascolare così travestito nei campi di grano altrui. Nessuno, credendolo un animale predatore, osava avvicinarsi all'asino e scacciarlo, così lui poteva brucare quanto voleva. Una volta però un guardiano si mise addosso un mantello grigio e si nascose in agguato, pronto con l'arco e la freccia incoccata. Quando l'asino lo scorse lo scambiò per un'asina e provando per lui un irresistibile motto d'amore prese a ragliare e corse verso l'uomo. Il guardiano del campo riconobbe l'asino dal raglio e lo uccise.
Secondo Canetti, questo racconto indiano, intitolato appunto L'asino nella pelle di tigre , riassume in poche frasi un piccolo trattato sulla simulazione. Perciò egli ne fa una minuziosa analisi che prende diverse pagine del capitolo dedicato alle due caratteristiche essenziali del potere: l'imitazione e la simulazione..
Vale la pena riportarne qui almeno alcune considerazioni:
"L'amenità della storia sta nel fatto che l'asino, dopo aver mangiato, si sente solo". E non appena scorge da lontano qualcosa che gli ricorda un suo simile, vorrebbe che fosse un'asina. Dunque raglia e si dirige decisamente verso di lei. Ma col suo raglio rivela di essere quello che è, un asino, e viene ucciso dal guardiano del campo.
Insomma anziché l'amore, o il premio desiderato, l'asino trova la morte, o la fine che dir si voglia, che è anche la fine della favola.
Canetti fa notare come il racconto sia costruito come una vera e propria "sequenza di inganni". E commenta:"Simulando di essere una creatura che in realtà non si è, si cerca di ingannare altre creature. Accade però che le simulazioni ottengano risultati completamente diversi da quelli previsti."
Canetti tuttavia sottolinea come solo l'uomo ricorra abitualmente alla simulazione, può mascherare se stesso come fa il guardiano della favola e come fa anche il lavandaio padrone dell'asino. L'animale invece può essere soltanto vittima passiva della simulazione.
Nel racconto la separazione fra uomo e animale è perfetta. Esso sembra indicare il definitivo superamento dei tempi mitici in cui uomo e animale non si potevano distinguere l'uno dall'altro. Ma è proprio attraverso le sue esperienze mitiche che l'uomo ha imparato ad usare come più gli conviene quasi tutti gli animali.
E allo stesso modo l'uomo che aspira al potere e lo conquista in qualche modo cerca di trattare alla stessa stregua gli altri uomini.
E' così che le sue metamorfosi sono diventate vere e proprie simulazioni.
"La simulazione - avverte Canetti - aspetto limitato della metamorfosi, è l'unico che sia rimasto familiare al potente fino ai giorni nostri."
E fin qui l'insegnamento potrebbe anche essere considerato un po' scontato. Ma le osservazioni più l'interessanti sono proprio alla fine del capitolo: quando Canetti afferma che "il potente non può più trasformarsi ulteriormente". Per il fatto che egli è irrimediabilmente consapevole del suo "atteggiamento ostile interiore"
Per mantenere intatto questo suo nucleo interno, la sua immagine autentica, egli deve perciò limitarsi alle metamorfosi esteriori. Ad esempio, può talvolta considerare vantaggioso tener nascosta la paura o il terrore che promana dal suo vero volto, ma a tale scopo dovrà necessariamente servirsi di maschere .
Anche queste maschere egli le assumerà soltanto e sempre in modo temporaneo, poiché esse non modificheranno mai minimamente il suo volto interiore, la sua natura .
Si dirà: quella di Canetti non è certo una lettura o rilettura da consigliare ad agosto.
Ma leggendo alcune anticipazioni delle battaglie politiche (si fa per dire) o di trincea già cominciate fra i nostri "potenti" in vista delle primazìe (o le primarie) da conquistare ad ottobre, mi pare che una lettura approfondita di alcuni capitoli di "Massa e potere" - se non proprio alle masse spaparanzate sulle spiagge - potrebbe tornare utile sia agli uomini cosiddetti di potere, sia agli entomologi che ne studiano le mosse.
Per una più precisa messa a punto del contendere si potrebbe abbinare la lettura di questo libro a quella di un’altro "classico" di Gore Vidal, L'età dell'oro , dove si traccia una inedita e spregiudicata analisi dei giochi di potere del "secolo americano", visto dall'interno dell'impero, e da un osservatorio decisamente privilegiato, quello dei luoghi in cui segretamente i giochi si preparano e si dirigono. Dove, degli Stati uniti americani si dice ad esempio: "La nostra non è mai stata una democrazia. E' sempre stata - come recita la costituzione - una repubblica federale. Una repubblica guidata da un partito unico con due ali. Entrambe ali destre". Visto che il modello da imitare è noto, non è che, al di là di tutte le simulazioni, sia proprio questo, anche qui, o in quello che un tempo si diceva "il bel paese", - con gli inevitabili riflessi nell’isola anticamente detta felice - l'obiettivo delle metamorfosi in corso ?.


Vedi anche: filiazioni/uomini e lupi, il totem del lupo, cavalli e lupi

mercoledì 8 agosto 2007

di cavalli e lupi


Fra i tanti doni dei lupi agli uomini della prateria c'era stato anche quello dell'opportunità di castrare i cavalli.
Zhang Jiyuan, uno dei giovani protagonisti del romanzo di Jiang Rong, Il totem del lupo, durante il suo periodo di rieducazione nella pianura di Enrèn, aveva vissuto coi cavalli per due anni e si era sempre chiesto come fossero riusciti i primi uomini a capire che se li avessero castrati avrebbero potuto montarli più agevolmente.
"Lo stallone è uno dei sovrani della prateria, Non ha paura di niente, nè degli animali, né degli uomini. Si preoccupa che i lupi non attacchino la sua famiglia e gode della stessa libertà dei cavalli che vivono allo stesso brado. Per i castrati invece è diverso...Castrare un puledro non è facile e bisogna farlo al momento opportuno..."
Si tratta di un'operazione piuttosto complessa, Prima si deve incidere la pelle dello scroto ed estrarre i testicoli, poi bisogna recidere i sottili condotti ai quali sono collegati. Non si può usare il coltello, che potrebbe causare un'infezione, e non li swi può strappare per non ledere gli organi interni.
"Come si fa allora? I pastori li attorcigliano su se stessi e li annodano per suturare la ferita. Il puledro potrà essere domato solo dopo un anno, non prima. Non è un lavoro facile....Come avranno fatto gli uomini primitivi a scoprirlo?"
Zhang Yuan sostiene di averci riflettuto a lungo e di essere arrivato alla conclusione che gli uomini dovevano aver catturato un puledro ferito dai lupi, lo avevano curato e fatto crescere. Finché era piccolo si erano divertiti a cavalcarlo. Ma una volta diventato adulto, uno stallone non si lascia cavalcare da nessuno. Deve essere andata avanti così per molte generazioni.
"Poi qualcuno ha trovato un puledro di due anni che era stato azzannato dai lupi proprio ai testicoli. E si è reso conto che, a differenza degli altri, quel cavallo, una volta adulto, si lasciava domare e cavalcare...Ecco com'è avvenuta la scoperta. Ma è stato un processo molto lungo e complesso."
Nel corso dell'evoluzione successiva, apprendere come castrare e lobotomizzare gli uomini per poterli cavalcare o dominare meglio deve essere stato più rapido. Così è stato distorto l'antico dono del lupo agli antenati pastori. Ora si tratta di capire, e non è facile, che la lobotomizzazione delle masse ad opera della grande fabbrica dei sogni e delle menzogne, che opera soprattutto attraverso gli schermi dove pascoliamo nei vari mondi virtuali, è peggiore della castrazione dei cavalli e potrebbe costare molti più feriti e morti di quelli costati prima che l'uomo capisse come si doma un cavallo.

Nella storia dell'umanità - sostiene ancora Zhang Jiuyan - quest'ultimo è stato un enorme passo avanti, molto più importante delle quattro grandi scoperte cinesi: quella della carta e dei caratteri mobili, della polvere da sparo e della bussola. Scoperte che hanno segnato anche il cammino, forse più breve, per arrivare al grande passo indietro: quello della barbarie delle macchine e della riduzione degli uomini a tubi digerenti e vanamente desideranti di essere solo appendici delle macchine, a scoppio, a trazione elettrica o ad impulsi elettronici.
Finché l'etere cominciò a sostituire la carta, gli impulsi elettronici i caratteri mobili, l'energia atomica opportunamente manipolata la polvere da sparo. E a quel punto gli uomini persero la bussola.


Sul romanzo di Jiang Rong altre considerazioni in filiazioni e in letture in corso.

venerdì 27 luglio 2007

fuoco


"E' attraverso il fuoco che l'uomo può comunicare con gli stati d'essere superiori, con gli dèi e con le sfere celesti. Grazie al fuoco può partecipare alla vita cosmica, cooperare con gli dèi"
(Sharatapata-brahmana)

"Questo fuoco possente diventa il supporto del progresso umano, la forza per mezzo della quale l'uomo può migliorare la sua condizione e domare le forze della Natura. Per questo Agni (il Fuoco) è quello che-dà-la-ricchezza."
(Brihad-devata, 6000 circa a.C.)


[citate da François Gautier, Un autre regard sur l'Inde, èditions du tricorne, Genève, 2000]

vedi anche: letture in corso

anche nella pietra


Lui è il figlio delle acque, il figlio delle foreste
Il figlio delle cose che si muovono
Anche nella pietra lui è presente

(Rig-Veda V.1.70)



foto-copyright Giulio Pala

giovedì 26 luglio 2007

canto del fior di cisto

Vedo il sole, sono il sole
sento la luce, sono luce
ascolto il suono del vento, sono vento
l'acqua mi nutre, sono acqua
la terra mi sostiene, sono terra
l'energia vibra in me, sono fuoco
il tutto è in me, come nella parte
sono etere, riflesso riflettente
non penso di essere bello o bella
sono bellezza

Scende la sera, sono la sera
luce che si adagia nell'ombra
suono che ascolta il silenzio

il totem del lupo



Fra le letture in corso, Il totem del lupo, romanzo di Jiang Rong, è la più appassionante.
Esiliato nella prateria mongola ai tempi della rivoluzione culturale, lo studente Chen Zhen impara l'arte antica dei pastori nomadi. Trova nel vecchio saggio Bileg un istruttore prezioso che gli insegna gli antichi segreti della prateria.
Così Chen Shen penetra nel cuore di un'antica terra, sotto la volta dell'adorato Tengger, il Clelo
che tutto regge e regola, nel territorio sacro del totem del lupo.


Bileg gli fa capire che il lupo è al centro dell'equilibrio della prateria. Non a caso esso è l'inviato e il messaggero del cielo, l'animale sacro al quale vengono affidati i corpi una volta che l'anima li abbandona, proprio perché, divorando il corpo, riconducano l'anima al Tengger.
Se il lupo venisse distrutto - come vorrebbero i rappresentanti del potere - l'intera prateria morirebbe. Il lupo è l'antenato degli uomini, degli antichi guerrieri che apprendendo la sua strategia e la sua tattica di lotta, soggiogarono l'intero continente, sbaragliando armate dieci volte più grandi e potenti. Il lupo è maestro e dio della guerra, spirito protettore.


Chen Zhen ha catturato un cucciolo e pretende di allevarlo come un cane. Rischia di essere un tradimento, un sacrilegio, un oltraggio ai sentimenti del popolo della prateria e anche una trasgressione pericolosa nei confronti del governo e del regime.
Quel che più turba il giovane è l'aver ferito il vecchio Bileg, colui che lo ha condotto amorevolmente per mano nel mistico regno dei lupi. Era stato lui che lo ha aiutato a stanare quel cucciolo, ma non può ostinarsi a tenerlo senza offendere le tradizioni della prateria mongola.
Quando Bileg lo rimprovera per quella follia di voler allevare il lupacchiotto, con il pretesto di capire meglio il temperamento dei lupi, scoprire cosa li rende così forti e così intelligenti, comprendere meglio le ragioni per cui la gente della prateria li adora, Chen Zhen non può fare a meno di piangere.
"Voi giovani non credete più agli dèi e non vi preoccupate della vostra anima - dice sospirando il vecchio - Ti sei affezionato alla prateria e al mondo dei lupi, ma non hai imparato a leggere nel cuore degli uomini...Presto io salirò al Tengger: come puoi pensare di allevare insieme ai cani il lupo che porterà la mia anima in cielo? Se tutti trattassero i lupi al pari dei servi, come fai tu, non ci sarebbe pace per le anime dei mongoli..."

Chen Zhen cerca di spiegare al vecchio le sue nobili ragioni:
"Sai anche tu quanto i cinesi odiano i lupi. Chiamano con disprezzo lupi le persone abiette, spregevoli, crudeli, senza scrupoli e avide. Anche gli americani, per la loro politica imperialistica, ai loro occhi, sono voraci come lupi; e ai bambini si dice che se non stanno buoni arriva il lupo cattivo.
Anch'io, prima di arrivare qui, ero pieno di pregiudizi. Tu mi hai permesso di osservarli da viicino, mi hai insegnato tante cose sulla vita della prateria. Ora anch'io sono convinto che i lupi siano esseri eccezionali da venerare... E allevare un cucciolo mi sembra il mezzo migliore per conoscerli a fondo...Cosa ne sarà della prateria quando i contadini incominceranno a trasferirsi in massa a Erén? Sono sicuro che annienteranno i lupi e, allora, nessuno potrà più studiare come vivono. Sarà un disastro per i mongoli e una disgrazia per i cinesi..."

Il vecchio cerca di spiegare al giovane che ha scelto il momento meno opportuno.
Qualche settimana prima, i lupi hanno distrutto una mandria di cavalli selezionati per l'esercito.
"Quelli che comandano hanno deciso di trasformare la prateria in una zona agricola e noi siamo di ostacolo ai loro progetti...Stai offrendo loro un pretesto per sostenere che noi traviamo i giovani e siamo reazionari, nemici del socialismo..."
Chen Zhen inoltre trascura il fatto che la madre del cucciolo potrebbe ritrovarlo, condurre l'intero branco per vendicarsi:
"Non pensi a quali rischi esponi la nostra squadra? I capi hanno già accusato il caposquadra Ulzi di essere stato troppo fiacco nella caccia ai lupi e di non aver mai organizzato una spedizione decisa veramente a sterminarli...Adesso è Bao Shungui a comandare nella prateria: è un mongolo che ha voltato le spalle alle sue origini, e detesta i lupi più dei cinesi. Del resto non ha scelta: se non li uccide, destituiranno anche lui."

Chen Zhen si sentiva confuso. Non poteva rinunciare al suo cucciolo di lupo, ma neppure voleva creare problemi gravi ai suoi migliori amici, che già se ne erano tirati addosso abbastanza per conto loro.
Sarà proprio il nuovo sovrintendete, Bao Shungui, ad incoraggiarlo a continuare il suo esperimento, almeno per qualche mese. Finché il cucciolo non fosse diventato abbastanza grande da poter vendere la sua pelle a caro prezzo o regalarla a qualche dirigente in cambio di favori.

Jiang Rong, Lang Tuteng, 2004, Il totem del lupo, Milano, Mondadori 2006.

vedi anche: uomini e lupi in filiazioni



mercoledì 25 luglio 2007

sonos de ischirìa / suoni di asfodelo


ischirìa o iscrarìa
ma anche abrutzu, afruza, almutu, cadilloni, iscareja, prammutu, tarabùciu, ulciareu
sono i nomi sardi dell'asfodelo.

in beranu sos saltos sun pienos e cobeltos de ischirìa
in primavera gli asfodeli ricoprono i prati e le colline

quando soffia il maestrale vibrano e suonano
come un variato concerto di violini


Mio nonno ascoltava in silenzio, sotto il salice,
sos sonos de ischirìa
Mi sporgevo sull'imboccatura della fontana
per sciacquare bene le more in sa giuneddha
Senza smettere di ascoltare i suoni, mi diceva:
mih no che rues in sa funtana
attento a non cadere dentro la fonte.
Come accadde a Narciso,
rapito dai suoni di asfodelo.

asini sacri e lingue marginali

di asini sacri e lingue marginali

L'amico e sodale Miali Logudoresu ci ha chiesto di aggiungere alle nostre una sua estroflessione apparsa recentemente sul quotidiano online l'AltraVoce: dato che lo spazio virtuale, per definizione, è illimitato, assecondiamo la sua richiesta, anche se pletorica.


Ho letto con molta attenzione un ’articolo dettagliato e preciso di Matteo Bordiga sul quotidiano on line l'Altra Voce, a proposito dell’utilizzo terapeutico degli asini. La riscoperta (era ora!) della valenza positiva di questo simpatico animale, è anche una riconferma (mi pare) di antichi simbolismi presenti in molte tradizioni che all’asino attribuivano non soltanto accezioni negative, se non addirittura asuricheRane di Aristofane dice al suo padrone che gli carica il fardello sulle spalle: “sono io l’asino che porta i misteri”. Nella commedia si tratta forse di un’immagine caricaturale, e tuttavia l’asino portatore di misteri non è per niente un’immagine isolata e gli studiosi del simbolismo la interpretano come il simbolo del re e del potere temporale. Per cui – se ci si riferisse a questa illustre tradizione – chiamare “asino” un assessore o un presidente, un ministro o un premier, non dovrebbe suonare affatto offensivo. o sataniche, ma lo consideravano un animale sacro. Esso aveva infatti un ruolo importante nei culti apollinei di Delfi e aveva un ruolo insostituibile nel culto di Dioniso: portava il cofano che serviva da culla al dio. Lo schiavo delle

Fra le molte valenze del simbolo ce n’è un’altra che considera l’onagro, l’asino selvatico, come il rappresentante degli asceti del deserto e dei solitari. Pare che questo significato sia in relazione con la particolare durezza della mascella dell’onagro. E infatti fu proprio con una mandibola d’asino (probabilmente selvatico) che Sansone fece fuori un migliaio di nemici, prima che lo accecassero e lo incatenassero alle colonne del tempio. Rievocando questo aspetto del simbolo si potrebbe dare onorevolmente dell’asino, o dell’onagro, al cosiddetto “cane sciolto senza collare” (col quale volentieri ci identifichiamo) o al “rabdomante triste” di una sinistra che non c’è o che non c’è più.

Dice dunque bene Bordiga, in conclusione del suo articolo:

«Insomma, sulle potenzialità dell'asino e dei suoi prodotti naturali si stanno scoprendo un mucchio di cose interessanti e inaspettate. Alla faccia di quelli, e non erano pochi, che lo ritenevano un animale inutile, da confinare in un giardino zoologico».

Ecco, signor direttore, ho letto questo articolo subito dopo aver dato una scorsa ai numerosi e dottissimi interventi di linguisti esimi, antropologi da nobel, professionisti delle giurie dei premi con i quali esaltare i somari, titolati accademici e scrittori già emersi o emergenti; e con intollerabile insolenza ho sentito salirmi dalle viscere la considerazione: il mondo sarà un giardino di gioia e forse anche questa piccola isola potrà tornare ad essere “felice” (come la definivano, tra gli altri, antichi cronisti cultori di Apollo e di Dioniso) quando quel che saggiamente ricorda Bordiga a proposito degli asini potrà applicarsi anche agli uomini. Che come ci ricorda un grande saggio indiano altro non sono che “animali forniti di mente che non sempre usano”

Lei mi dirà, signor direttore, che non basta trincerarsi dietro i simbolismi e il gusto pericoloso dell’insulto (letterario, sia chiaro): bisognerebbe entrare nel merito e nel vivo del dibattito.

Ma sarebbe come unire agli altri uno dei tanti “orrios” che notoriamente “no alcian a chelu” e riecheggiano, stagnando, fra le colline delle marmille e delle gallure. Dato che lei mi insegna, direttore, che le lingue, tutte le lingue, anche quelle minoritarie o poco diffuse, non si inventano a tavolino, né in uffici né in studi televisivi o in sinagoghe. Le lingue si parlano e si scrivono. E parlandole e scrivendole si trasformano. E nonostante la strana opinione di certi linguisti offuscati, parlandole e scrivendole si evolvono.

Se si richiamasse alla memoria questo elementare principio credo che tutto lo spreco di risorse, di soldi e di energie, attorno all’annosa questione della lingua sarda data in mezzadrìa, finirebbe per apparire come quella parata di “burichi e burichetti” - magistralmente descritta dal Bresciani - che assieme ai “cavallucci piccoletti, gai, rubizzi e pepati” incantavano il re di Piemonte, strappando l’applauso del popolo quando “aggiogati al cocchio del Principe, lo scorrazzavano per le vie” della capitale d’oltremare, “agitando la negra e folta criniera, ringalluzziti, quasi sentissero il nobile pegno loro affidato da sì gran Re”.

vedi anche: la calata degli asini

martedì 24 luglio 2007

Come un blues. Ciao Kurt

Ciao Kurt . Omaggio postumo a Kurt Vonnegut

Qualche mese fa, il 10 di aprile, se ne è andato, alla veneranda età di 85 anni, uno dei più grandi scrittori umoristici dell'età moderna, Kurt Vannegut jr, definito l'erede (secondo alcuni addirittura una reincarnazione) del gigante Mark Twain.

Fra i suoi libri di successo mondiale ricordiamo, almeno, Le sirene di Titano, La colazione dei campioni , Mattatoio n.5, Perle ai porci, Comica finale. E la trilogia della sua "apocalisse comica" che tutti gli amanti della letteratura non possono fare a meno di leggere: Ghiaccio 9, Galapagos , Cronosisma . Tutti suoi libri sono stati tradotti in italiano dai più importanti editori. L'ultimo, pubblicato da Minimum Fax nel 2006 è "Un uomo senza patria". da cui abbiamo tratto le citazioni di questo saluto a uno degli scrittori più amati, un vero amico, anche se "lontano".

A nome di tutti gli amici dell'associazione manuelfurru & co vorrei dare un breve arrivederci a Kurt. In realtà, almeno in questa vita, non ci siamo mai incontrati; ma lo abbiamo sempre considerato uno dei nostri più cari amici, fin da quando leggemmo "La colazione dei campioni", poi - man mano che uscivano le traduzioni - tutti gli altri libri della sua apocalisse comica e le altre raccolte delle sue stentoree risate..

Ecco, riguardando le coste dei libri allineati sulla scansia, recitiamo i titoli come un messaggio a Kurt, per dirgli: fatti vivo non appena uno di noi verrà a cercarti lì dove sei adesso, portandosi dietro gli altri. Magari sotto il melo dove tuo zio beveva il sidro fresco e diceva ogni volta: se non è bello questo, che cosa è bello? Chissà che non riusciamo a farci una bella chiacchierata e a ridere insieme di ricordi comuni. Come quello del giorno in cui hai compiuto ottantadue anni, l'11 novembre del 2004, e ti chiedevi: che effetto fa essere così vecchi? Ti lamentavi, ridendo, della forza di gravità diventata molto più ostile e del fatto di non riuscire più a fare un parcheggio in retromarcia come Cristo comanda. Chiedevi quindi di non guardarti mentre ci provavi. E naturalmente ti domadavi che senso avesse la vita. Uno dei tuoi sette figli, il pediatra, ti aveva risposto: "siamo qui per darci una mano l'un l'altro ad affrontare questa cosa, qualunque senso abbia". A prescindere dalla corruzione dilagante e dell'avidità senza cuore di governi, aziende, media, istituzioni religiose e benefiche - ti dicevi - la musica resterà sempre una cosa meravigliosa. E aggiungevi:

"Se mai dovessi morire - Dio non voglia - vorrei che sulla mia lapide ci fosse scritto: L'unica prova che gli serviva dell'esistenza di Dio era la musica". Amavi tutta la musica, compresa quella eseguita dalle bande militari: anch'esse, per quanto tu fossi e ti dichiarassi un irriducibile pacifista, riuscivano a metterti di buonumore. E se non è bello questo, Kurt, che cos'è bello?

Sostenevi che la cura più indicata per l'epidemia mondiale di depressione è un dono che ha preso il nome di blues, dal quale deriva tutta la musica leggera contemporanea, compreso il jazz. La medicina non funziona per i vivi che si illudono di essere vivi, senza chiedersi mai che senso abbia la vita. Ma mantiene le sue virtù terapeutiche per i morti come te, Kurt, i vivi che restano sempre vivi; E siamo convinti che appena butterai lo sguardo ridente su questo blues di parole senza la musica, lo segnalerai a tuo zio e lui, sotto l'albero, ti ripeterà la sua massima: se non è bello questo, parlarsi infischiandosene delle presunte barricate che separerebbero il mondo sottile da questo mondo grossolano, rendendo impossibile la comunicazione fra i vivi, che cosa è bello, allora?

Aveva ragione quell'ottimo scrittore amico tuo, Albert Murray, quando si interrogava sul motivo per cui, ai tempi della schiavitù in America, il tasso dei suicidi fra i padroni di schiavi fosse di gran lunga più alto di quello fra gli schiavi. Murray sosteneva che i padroni non ascoltavano mai musica. Gli schiavi invece, suonando e cantando il blues, riuscivano a scacciare lo spettro del suicidio. E probabilmente sapevano anche che se l'avessero fatto, sarebbero rimasti schiavi del suicidio per molte vite ancora. Che è molto peggio di dover lavorare come schiavi in una piantagione o in una fabbrica: dato che una vita, tutto sommato, passa in fretta e quella successiva è sempre più importante della precedente.

Murray sapeva bene che il blues non può eliminare completamente la depressione in una casa, ma può mandarla a nascondersi in un angola in ogni stanza in cui la si suona. E tu hai fatto benissimo a ricordarcelo: infatti, come raccomandavi, non ce lo siamo dimenticato.

E ogni volta che ripensiamo a te, ascoltiamo un blues, o anche una bossa nova, che è il nostro genere preferito.

A proposito Kurt, hai scoperto dove stanno adesso Mark Twain e Abraham Lincoln? Non è che erano lì ad aspettarti sotto l'albero, bevendo sidro fresco, insieme a tuo zio?

Vecchio Kurt, ci manchi molto: ma basta aprire uno qualsiasi dei tuoi libri e sentiamo la tua risata che suona come un blues.


lunedì 23 luglio 2007

la calata degli asini


Laddove la realtà non soccorre, o non conforta, l'immaginazione poetica tenta di supplire.

De Via Roma cunsizzeri
attenzione, pone in mente
ca a cadde 'e unu molente
medas chend'an bogadu

Francesco Luigi Sotgiu (luglio 2007) http://www.altravoce.net/2007/07/21/innu.html

Riscrivendo o riattualizzando il famoso Inno del patriota contro i feudatari, il poeta Francesco Luigi Sotgiu ricorda - proprio in chiusura - una delle più fiere espressioni del senso democratico-libertario dei Sardi: sa bogada a cadd'a s'ainu, la cacciata sull'asino, riservata di solito al prete indegno, ma anche al rappresentante di comunità trasformatosi in signorotto o cacicco, dunque non più rappresentante ma oppressore o negatore del bene comune e dei valori costitutivi della comunità stessa. Nel corso della storia documentabile, la cacciata sull'asino, col viso del cacciato rivolto alla coda, è stata praticata molte volte, almeno una volta - c'è da credere - in quasi ognuna delle comunità sarde, come documentano le tradizioni orali, ma anche le cronache scritte.
Dato l'alto valore simbolico connesso all'asino (di cui è capitato di parlare tempo fa su questo stesso giornale - vedi archivio) con particolare riferimento all'esercizio dei poteri e alla loro degenerazione, une bella e spettacolare "bogada a caddh'a s'ainu" sarebbe - se non altro nei sogni o nell'utopia dell'immaginazione - il modo più adeguato, nonchè consono alle tradizioni e alla peculiarità spirituale o identitaria dei figli di Sandhan, per liberarsi dalla casta e dalla mafia politica dominante, che è il vero cancro, o l'aspetto più purulento, di quel male che da sempre (nei tempi moderni almeno) impedisce o vanifica l'aspirazione a una vera "rinascita" dei Sardi.
Sarebbe anche la modalità più consona di una sacrosanta "rivolta" popolare all'insegna della non violenza o della magnanimità. Dato che uno dei segni, delle valenze della "cacciata con l'asino" era anche la volontà popolare di allontanare il colpevole, il rappresentante del culto o del potere politico venuto meno al suo compito e alla sua responsabilità, dunque votato alla perdita totale di quella credibilità e di quella autorevolezza senza le quali non si esercita il potere di ordinare-amministrare, ma solo quello di opprimere, vessare, tartassare, disgregare la comunità umana..Allontanare l'indegno dalla chiesa o dalla casa comunale - simboli del potere religoso e politico - perché se ne era reso indegno, significava anche "graziarlo": ovvero esiliarlo senza giustiziarlo. "A caddh'a s'ainu" non per umiliarlo, ma propio perchè l'asino era, simbolicamente, il "veicolo" mediante il quale si accedeva al potere: l’asino "portatore di misteri" era non a caso il simbolo del re e del potere temporale. Dunque era anche il veicolo simbolico della estromissione dal potere, per indegnità o incapacità manifesta.
Ora che i simboli restano vivi soltanto nell'immaginario dei poeti c'è da chiedersi: quanti danni e disastri dovrà ancora perpetrare la casta degli incapaci e degli indegni (salvo le pochissime eccezioni indispensabili alla conferma della regola) perchè un popolo ancora memore delle sue nobili tradizioni si decida alla cacciata?
Ammesso che non ci sia più spazio (o tempo) per l'attualizzazione dei gesti simbolici, nel tempo in cui dilagano le realtà virtuali dovrebbe esserci ancora spazio per una qualche attuazione allegorica.
Si profila un'ccasione di notevole spessore metaforico: per l'8 di settembre prossimo il popolare comico Beppe Grillo ha lanciato, dal podio delle conferenze della Comunità europea, un V-Day da burla, il "Vaffanculo day". E pare che al suo appello abbiano risposto e stiano rispondendo migliaia di fans. Il blog del comico genovese, frequentato da più di un milione di internauti, informa puntualmente delle adesioni crescenti e dell'intensificarsi dei preparativi. E fra le 160 città in cui sono previste manifestazioni ci sarà anche Cagliari, la capitale virtuale della nostra minuscola "nazione mancata", sede del Palazzo dove la casta dei "pag'onorevoles" consuma i suoi bagordi, sancendo gli sprechi, affossando le iniziative migliori, realizzando quei primati dei costi che questo giornale puntualmente conteggia e vibratamente denuncia.
Mettendo isnieme le informazioni e le occasioni, sarebbe bello (stavo per dire poeticamente bello) riuscire a mettere in scena, magari proprio l'8 settembre, giornata nazionale del Vaffanculo Day promosso da Grillo, una manifestazione finalmente non folclorica: la cacciata sull'asino. Metaforica, ovviamente. Basterebbe che almeno un centinaio di rappresentanti (o di semplici manifestanti) provenienti da altrettanti comuni sardi dove l'asino non è scomparso, portassero un bel buricco attrezzzato di murrile , basto e sonagliere, con un mamuthone impagliato in sella e un cartello:
" S'ainu est prontu, l'asino è pronto: preparatevi a salire in sella" . Faccia alla coda, naturalmente.
Quanto alla sceneggiatura e al trattamento del soggetto, ci vorrebbero il coinvolgimento di un comico popolare sardo e la perizia di un regista esperto di happenings. Ce li abbiamo entrambi e mi permetto di suggerire i nomi, se il soggetto dovesse attrarli: Benito e Filippo. Furono loro, se la memoria non m'inganna, ad organizzare una quarantina di anni fa, nell'antica capitale di Eleonora, una spettacolare calata di giovani della provincia oristanese tutti coi segni e i vestiti di Zorro, chi ne poteva disporre, a cavallo. Seppure soccorso solo dalla memoria e dalla fantasia, li vedo come i più capaci e collaudati inventori di happenings popolari, che, volendo, sarebbero in grado di dar vita a quello che sicuramente passerebbe alla storia come la "calata degli asini" in vista della cacciata.
Vada come vada, il soggetto è free o, come s'usa fare in rete, common licence.

domenica 22 luglio 2007

Alberto Masala news: Asuni - Lettera aperta
e letta a voce alta n.2


Alberto Masala news: Asuni - Lettera aperta
e letta a voce alta n.2


Questa lettera aperta, che segue al primo appello lanciato dal poeta-scrittore Alberto Masala, per difendere (o salvare dalla sussistenza che precede l'inedia) il Progetto Asuni - uno dei più importanti progetti culturali avviati in Sardegna nel III millennio dell'era "volgare" (nella sua fase conclusiva: quella del "superclan" degli idioti e delle caste dei politicanti mafiosi, nemici giurati dell'arte, della cultura e della poesia, dell'umanesimo e dell'umanità non imbestiata) è un implicito/esplicito invito agli intellettuali (sardi, in primo luogo) ad uscire dall'apatia e dalla passività (spesso complice del potere di casta) - ai poeti, ai letterati, a tutti gli amanti della cultura, della poesia, dell'arte, non solo per difendere e rilanciare il Progetto Asuni, ma quel che resta della dignità della cultura.
Pertanto, la solidarietà attiva è da considerare come un obbligo.

Vedi anche:

L'AltraVoce, giornale libero e indipendente fondato e diretto da Giorgio Melis
http://www.altravoce.net/2007/07/22/lettera.html

Blog di Patrizia Caffiero
http://www.blogs.it/htsrv/trackback3.php/2633073/e9a2b

lunedì 16 luglio 2007

Uomini & Lupi

Dei rapporti di filiazione e parentela tra uomini e lupi sapevamo delle origini di Roma (i fondatori nutriti da una lupa) e dell'ambiguo rapporto fra Cappuccetto rosso e la finta nonna.
L'appassionante romanzo del cinese Jiang Rong, "Il totem del lupo" ci fornisce dati, leggende e informazioni ben più ricche e a dir poco strabilianti.

Lo storico Sima Qian riporta nelle sue "Memorie" la storia di Kunmo, figlio del re dei Wusun, abbandonato nei campi dopo la disfatta subita ad opera dei Xiongnu. Il piccolo principe fu soccorso e sfamato dai corvi, mentre una lupa lo dissetò col suo latte.

Quando venne a saperlo, il re degli Xiongnu decise di adottare il bambino, ritenendolo una divinità. Diventato grande Kunmo diede prova di grande valore: dapprima difese con successo i confini occidentali del regno; dopo la morte del re trasferì la sua reggia e si rifiutò di obbedire alle leggi della gente che aveva ucciso suo padre. La città di Zhongli fu attaccata da un possente esercito, ma il giovane si difese con coraggio e respinse tutte le incursioni. Da allora gli Xiongnu lo considerarono una pericolosa divinità dalla quale tenesri a distanza.


Nella parte del Libro dei Zhou dedicato alle origini dei Turchi si dice che anche i turchi provenissero dalla regione di Suo, a nord della terra abitata dagli Xiongnu. Il capo dei turchi si chiamava Abangh e aveva 17 fratelli, uno dei quali nato da una lupa.
Abangh e i fratelli governarono il paese in maniera così dissennata da portarlo alla rovina. Soltanto Yiznishid, il figlio della lupa, era un uomo prudente e saggio, che sapeva anche parlare col vento e con la pioggia. Ebbe due mogli, figlie della dea dell'estate e della dea dell'inverno. Una delle due ebbe quattro figli maschi.
Questa storia, per quanto strana possa sembrare - sostiene il Libro dei Zhou - testimonia che i turchi discendono dai lupi.


A conferma della tesi, un'altra storia tratta dallo stesso Libro precisa che i turchi discendono dagli Ashina, una tribù della Cina occidentale di etnia xiongnu, che fu sterminata dai popoli confinanti. Alla strage era sopravvissuto soltanto un ragazzo di 10 anni, che impietosì i soldati proprio per la sua tenera età. Così essi si limitarono ad amputargli i piedi e ad abbandonarlo sulle rive di un acquitrino. Qui il ragazzo venne allevato e nutrito da una lupa, con la quale, una volta diventato adulto, si accoppiò. Quando il re venne a sapere che il ragazzo era ancora vivo mandò dei sicari ad ucciderlo. Ma la lupa, non appena ustò gli assassini, fuggì sulle montagne e trovò rifugio in una grotta. Lì, al sicuro, diede alla luce dicei figli maschi che crebbero sani e forti. Una volta diventati grandi presero moglie ed ebbero numerosi figli, ciascuno dei quali si scelse un nome. Uno di essi scelse il nome di Ashina, e fece così rivivere l'antica tribù sterminata dai popoli confinanti.

Ma la storia più affascinante è quella tratta dal Libro degli Wei che racconta la storia di vari popoli della Cina occidentale, fra cui i Ruru e gli Xiongnu.
Il re degli xiongnu aveva due bellissime figlie che i sudditi veneravano come dee. Il padre era convinto che nessun uomo potesse essere degno di tanta bellezza e che le sue figlie potesse sposarle soltanto il Cielo. Così fece costruire una piattaforma in una remota regione del Nord dove lasciò le fanciulle affinchè lo sposo celeste venisse a prendersele.
Un giorno un vecchio lupo si accostò alle ragazze. Ululò un intero giorno e un'intera notte. Poi scavò una tana sotto la piattaforma e da lì non si mosse più.
Una delle due bellissime disse: "Voglio andare a parlare con questo lupo. Forse è una divinità inviataci da Tengger, il dio del Cielo."
"Sei pazza?! Non farlo - disse l'altra - è soltanto una bestia"
Ma la ragazza scese dalla piattaforma e si unì al lupo. Dalla loro unione nacquero numerosi figli che, diventati grandi, si moltiplicarono a loro volta, dando origine a un fiorente popolo.
Dunque anche questa etnia degli xiongnu deriva dai lupi. Ancora oggi, infatti, la gente di quelle terre ama cantare a voce alta melodie dai suoni prolungati che ricordano l'ululato dei lupi.


(racconti e notizie sono tratti da "Il totem del lupo" di Jiang Rong (Milano 2006). La traduzione italiana del libro è stata curata da Maria Gottardo e Monica Morzenti, con la revisione di Giuseppe Gallo. L'amico che ci ha segnalato questo affascinante libro si chiama Michele Lupo e abita in provincia di Trapani)

sabato 14 luglio 2007

Il campo di Rumi e la Bellezza


"Al di là dei concetti di azione giusta o sbagliata, esiste un campo.
Io vi aspetto in quel luogo"
(Rumi)



"La bellezza è l'eternità che si guarda allo specchio.
Ma l'eternità sei tu e lo specchio sei tu"
(Kahlil Gibran)

giovedì 12 luglio 2007

invocazione navajo


Nizhonigoo bil iina

La bellezza di cui ti circondi
La bellezza secondo cui tu vivi,
La bellezza su cui fondi la tua vita

[Gregg Braden, da una intervista con Bruce Hucko, Shonto Begay, artista indiano]

fiori di mirto


Quello che la Natura riesce a fare in una semplice pianta di mirto, i pittori più ispirati non sempre riescono a realizzarlo dopo aver buttato via un migliaio di tele.
E tuttavia è stato chiesto: Dove, nella Natura materiale, puoi trovare un Falstaff, un Macbeth o un Lear?
Essa ne possiede delle ombre o delle sembianze, ma essi la sovrastano di molto.

fiori di cisto


L'arte della natura non si dichiara mai morta.
E non aspira neppure ad andare in pensione.

alvèschida


collage di un'alba

In sardo alba e aurora hanno un solo nome:
alvèschida

Un grande saggio ricordava spesso che l'aurora comincia esattamente dal punto in cui la notte è più oscura.
E' un'affermazione che fa ben sperare.

mercoledì 11 luglio 2007

manuel furru la casa davanti all'oceano


a cura delll'associazione manuelfurru & co e delle edizioni
Grafica del Parteolla è uscito a giugno il primo dei nove romanzi di manuel furru
La casa davanti all'oceano

in distribuzione nelle principali librerie sarde

acquistabile anche on line

soliana anno I numero 1


Soliana - anno I numero 1

rivista di arti, cinema, poesia, filosofia e letteratura
redatta da Mimmo Bua, Fabrizio Derosas, Francesca Falchi e Bruno Pittau



In questo numero:
Poesia: Luciana Floris, Alberto Masala, Giovanni Dettori, Samira Negrouche, Jabbar Yassin Hussin, Marc Porcu
Arte: Rosanna Rossi
Filosofia: Tommaso Iorco, Mimmo Bua, Luigi Mazzarelli
Cinema: Fabrizio Derosas
Racconti: Luciana Floris, Elisabetta Rombi, Francesca Falchi
Memorie: Nunzio Caponio
Recensioni: Giuseppe Pettinau, Massimo Pittau

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